Arrival (2018) di Denis Villeneuve



La fantascienza è un genere cinematografico che offre delle possibilità d'immaginazione pressoché illimitate. Ci si può spostare tra un pianeta e l'altro con enormi vascelli spaziali, pensare agli effetti di tecnologie sperimentali come la clonazione, e più di tutto ci permette di pensare al confronto con ciò che ci è alieno, cioè distante, estraneo e inarrivabile. L'alieno in questione è sempre in relazione all'individuo o la società che lo ha pensato. Ed è proprio per questo motivo che molti prendono sul serio i film sui mostri: indagare i mostri equivale ad analizzare la mente che li ha creati. "Arrival" (2016) di Denis Villeneuve ci mostra come non sempre il rapporto con il mostro possa essere risolto attraverso un conflitto e ci obbliga a pensare il diverso attraverso il linguaggio, e costringe a domandarsi: perché proprio l'immagine?



Era contemporanea. Dodici oggetti venuti dallo spazio atterrano in diverse località del mondo. Nel Montana (USA) la linguista Louise Banks e il fisico Ian Donnelly sono chiamati dall'esercito per studiare la situazione. Gli alieni presenti nei colossi di pietra sembrerebbero in grado di comunicare attraverso suoni e rappresentazioni visive proiettate su uno schermo che separa gli umani dal loro habitat. Risulta subito chiara la situazione in cui la pellicola vuole coinvolgere lo spettatore: abbandonare le armi e gettarsi in questo intrigo linguistico.


Logogrammi. Questo è il nome dato alle forme circolari che gli eptapodi producono. Un linguaggio visivo, per gli umani incomprensibile, che deve essere decodificato a tutti i costi. È impensabile che due cervelli evolutisi a milioni di anni luce siano capaci di comprendersi, tanto meno usare lo stesso registro linguistico, magari l'inglese (come avviene in una filmografia sconfinata). Il fatto è che questi eptapodi possiedono un cervello complesso e pensano il tempo in maniera circolare, piuttosto che  lineare. Un singolo logogramma è rappresentazione di un intero periodo, o magari di un insieme di ricordi di una vita intera, con valore universale. Tralasciando il discorso sulla possibilità di risolvere i conflitti tra gli esseri umani attraverso l'utilizzo di questo linguaggio (tematica totalmente interna alla narrazione) il pregio di "Arrival" è la contraddizione che produce. Non è possibile per l'essere umano pensare il tempo nella sua totalità ed è per questo che dobbiamo necessariamente ricollocare questa totalità nel tempo lineare e nello spazio attraverso un supporto visivo, il cinema. Per quanto sia possibile tenere in mano una bobina di pellicola, ovvero il supporto materico del cinema, mai si riuscirà a cogliere il film nella sua interezza in una volta sola. Il cinema implica linearità e procedimento di stati mentali. Caso emblematico in cui il cinema hollywoodiano non riesce a pensare l'ignoto ed è costretto a razionalizzare l'immagine è il tesseratto in "Interestellar" (2014) di Christopher Nolan: il fondo del buco nero è un oggetto perfettamente rappresentabile dalla nostra mente.In "Arrival" invece il logogramma assume quindi lo statuto di luogo liminare dell'occhio, un segno che ci indica che qualcosa ci sfugge; e non perché semplicemente nascosto, ma perché inconcepibile. In conclusione "Arrival" tende verso un cinema dell'ignoto, in cui l'immagine è veicolo sia di una ricollocazione di senso, sia di un tentativo nuovo di esperienza della realtà.




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