Macbeth (1982) di Béla Tarr



Béla Tarr è ormai riconosciuto come un cineasta monumentale, di fondamentale importanza per la comprensione del cinema, eppure ancora poco conosciuto e volutamente tralasciato da chi è solito occuparsi di cinema. La ragione di questo fatto è sicuramente la difficoltà della materia da trattare e una certa soggezione da parte dello spettatore che sembra ritrovarsi a disagio nell'affrontare film molto lunghi, magari in bianco e nero, con tempi dell'azione molto dilatati. In ogni caso i saggi e le pubblicazioni abbondano, soprattutto all'estero, in Italia sono ancora poche, ma apprezzabili. Poiché la sua filmografia si può a buon diritto ritenersi conclusa (Tarr ha infatti dichiarato che Il cavallo di Torino (2011) è il suo ultimo film) è interessante andare a scavare in ciò che il suo cinema è stato, come si è evoluto, alla ricerca di elementi prolifici. 





Questo è il caso di una delle sue pellicole meno conosciute: Macbeth, realizzato nel 1982 e tratto, come si può ben intendere, dal capolavoro letterario di William Shakespeare. L'opera affronta dunque di petto la materia teatrale, ma non si limita a farne una trasposizione cinematografica, anzi converte e riformula i codici del teatro e si spinge in luoghi in cui questo non può minimamente arrivare, utilizzando la potenza dell'immagine come ariete per sfondare le porte dell'invisibile e accedere ad una profonda dimensione orrorifica. 





Titolo di testa: la duplice struttura di Macbeth [1] 





Così come l'opera letteraria anche il film di Tarr si apre con il prologo in cui le tre streghe si manifestano a Macbeth e Banquo. Si nota subito come la messa in scena sia fortemente teatrale: non sono presenti tagli di montaggio, dunque non c'è una punteggiatura strettamente cinematografica. La macchina da presa inquadra i diversi personaggi quasi come se fosse incollata al loro volto e segue il loro procedere alternando i volti di chi ha la parola in quel momento; l'intero film è di fatto un continuo susseguirsi di monologhi. L'unico taglio di montaggio presente nell'intero film è quello che chiude il prologo e lascia spazio al titolo di testa. Dopodiché un unico piano sequenza sviscera l'intera vicenda fino ai titoli di coda. L'azione si svolge in unico spazio-tempo, dove le leggi stesse della narrazione vengono meno, viene meno in realtà l'intera coerenza narrativa dell'opera originale. Il prologo quindi non solamente ha la funzione di introdurre la vicenda, in questo caso è anche un momento che racchiude implicitamente l'intera vicenda e quindi la seconda parte del film. Il lungo esplicitarsi della storia non è altro che una protesi, una lunga nota a margine, per dimostrare come in realtà le sorti dell'intera vicenda fossero già state decise all'inizio dalla profezia delle streghe. In questo modo Tarr riesce a descrivere con molta chiarezza uno dei punti cardini della vicenda: la profezia in questione è autodeterminata dallo stesso Macbeth, artefice della sua stessa disgrazia, carnefice del suo destino. 






In questo titolo di testa, minimale quando efficace, è racchiuso non solo il nucleo formale del film, ma anche e soprattutto quello tematico, inscindibile da quello cinematografico. Infatti, con 'paure immaginarie' si può intendere paure inconcepibili, cioè non visibili. 


Analisi del fuoricampo: l'uomo è testimone della catastrofe



Béla Tarr si dimostra brillante nel conferire forma visiva all'opera di Shakespeare, andando ben oltre numerosi maldestri tentativi di trasportare il teatro sul grande schermo. Eppure l'utilizzo della materia trattata è solamente funzionale a ciò che gli è veramente urgente esprimere: una visione fortemente tragica e catastrofica della condizione umana. Tarr scavalca alcuni momenti narrativi per tentare di accedere a una dimensione indicibile e inconcepibile: decide di non rappresentare in alcun modo quelli che si possono definire i momenti sovrannaturali della vicenda, ovvero l'apparizione del fantasma di Banquo, la profezia sulla stirpe del futuro re e le altre apparizioni. Il meccanismo è perfettamente teatrale, eppure la potenza dell'immagine di Tarr relega la consueta rappresentazione delle scene a un livello meno incisivo. Il volto di Macbeth riflette una luce rossa o violacea e la macchina da presa scolpisce il terrore con la luce. L'evento indicibile avviene nel fuori campo cinematografico, ovvero in uno spazio che la MdP non coglie, non pone nel quadro. In questo modo il campo del reale subisce un' epoché tale da poter aprire una dimensione in cui effettivamente la catastrofe avviene. Il volto ridotto a un fascio di potenze cosmiche diventa testimonianza della follia, della tragedia che domina gli uomini. Anche in altri film di Tarr il tema, ma userei piuttosto il termine sensazione o esperienza, della catastrofe è presente, si veda Il Cavallo di Torino (2011), che è di fatto una lunga attesa dell'arrivo della fine. Eppure in questo suo film dimenticato si cela l'apparizione diretta della catastrofe stessa, rendendolo tra i più importanti della sua intera filmografia.





La luce brucia il volto di Macbeth, che diventa il mero riflesso di qualcosa di indicibile che avviene nel fuori campo. La modalità letteraria dell'orrore non visto o non raccontato assume grande potenza espressiva. 





  1. Per le caratteristiche tecniche del film ho fatto riferimento al molto valido libro di introduzione a Tarr scritto da Marco Grosoli, Armonie contro il giorno: il cinema di Béla Tarr, Bébert Edizioni, 2014.







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