“La metafora è la realtà”
sostiene Jean-Luc Godard nel suo testamentario Adieu au Langage (id.,
2014). Si è certamente abituati a vedere rappresentata la realtà attraverso
racconti che grazie alla potenza delle loro metafore siano capaci di sviscerare
l’implicito funzionamento della realtà stessa, o almeno a darne un’interpretazione
efficace. Sembrerebbe difficile sostenere che un film come Il Buco (El
Hoyo, 2019) di Galder Gaztelu-Urrutia, qui al suo esordio alla regia, possa
discostarsi da questo filone e trovare un’autentica propria originalità. Eppure,
il cineasta spagnolo riesce bene nell’intento grazie alla sapiente disposizione
degli elementi in gioco, sfruttando con intelligenza il campo del visibile e compiendo
un generale cambio di prospettiva su questo particolare genere cinematografico.
Sinossi
Una piattaforma colma di pietanze
è l’unica fonte di nutrimento per una comunità imprigionata all’interno di una
struttura carceraria all’avanguardia, detta ‘il buco’. I prigionieri sono
disposti a coppie e condividono uno dei numerosi piani che compongono la
struttura. La pedana si sposta dall’alto verso il basso, di piano in piano, in
modo tale che ogni individuo possa assicurarsi piatti gourmet e sfiziosi manicaretti.
Il protagonista Goreng, offertosi di sua spontanea volontà alla partecipazione
dell’esperimento per smettere di fumare e leggere, capirà ben presto a quale
livello può spingersi l’istinto di sopravvivenza degli esseri umani.
Storie di congegni. Un anagramma
La prima impressione che Il Buco
trasmette è quella di trovarsi di fronte a una brillante variante de Il Cubo
(The Cube, Vincenzo Natali, 1997), nel quale si respira la stessa
claustrofobica aria. Ma il regista spagnolo, piuttosto che pensare i suoi
livelli come moduli mobili, edifica una rigida gerarchizzazione dello spazio,
nel quale ad essere intercambiabili non sono i blocchi, ma le persone costrette
al loro interno. La realtà immaginata dal regista è un microcosmo in cui l’unica
legge vigente è quella del più forte; in tal modo l’illusorietà dell’abbondanza
e la certezza di morte violenza spingono gli individui a scatenare i loro istinti
più feroci per garantirsi la sopravvivenza. Il Buco apre le porte alla
possibilità che non solo un siffatto microcosmo possa essere una metafora della
realtà, ma ancora peggio: una sua sineddoche; il tempo del racconto è il
presente, non una distopia futuristica. Se davvero la legge di natura che
regola le cose è la legge del più forte (il famoso “homo homini lupus” di
Plauto), allora significa non solo che qualcuno potrebbe decidere di costruire
un sistema carcerario spietato come “il buco”, ma soprattutto che l’uomo è
altresì impotente di fronte a forze non contenibili. Infatti, il meccanismo che
regola la posizione che ogni detenuto dovrà tenere per un mese consecutivo non
è basato sui meriti e demeriti degli individui, né sulla base di decisioni
prese dall’Amministrazione, bensì sull’estrazione casuale, cioè sulla
probabilità, il caso. Ciò che maggiormente spaventava del film di Vincenzo
Natali è il fatto che ci fosse un complotto, un burattinaio che avesse fin dall’inizio
deciso il come e il perché i personaggi di Il Cubo dovessero essere imprigionati.
Sebbene anche in Il Buco il nemico non sia visibile, e costretto a rimane un elemento
ignoto, l’ipotesi è totalmente lasciata in mano allo spettatore, chiamato in causa
per completare il quadro. In questo modo il Buco propone un racconto vincente
rispetto all’ampio margine di possibilità offerta al pubblico di interpretare
la realtà stessa.
Sopra: Il Buco (2019)
Sotto: Il Cubo (1997)
La lumaca e i mulini a vento
A dover fare i conti con questo
prodigioso inferno tecnologico è l’ingenuo Goreng, il protagonista del
racconto. Attorno alla sua figura ruotano due ordini simbolici ben precisi: la
lumaca e Don Chisciotte. Seguendo alla lettera l’aforisma del filosofo tedesco
Ludwig Feuerbach “l’uomo è ciò che mangia”, Gaztelu-Urrutia istituisce un
parallelo identitario tra Goreng e il piatto preferito di quest’ultimo: les
escargots. Proprio come le lumache spurgano liquidi durante la cottura, così per
Goreng sembra necessario disfarsi dei preconcetti morali e di ogni sentimento
per poter sopravvivere. In tal modo diventa ben chiara, dal punto di vista
narrativo, l’idea dell’abbassamento dell’uomo ai suoi istinti primordiali. Il Don
Chisciotte della Mancia (El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha,
Miguel de Cervantes Saavedra, 1605) figura invece come oggetto guida. Il
romanzo è il più importante della letteratura spagnola ed è riconosciuto dai
critici di tutto il mondo come uno sfregio al potere vigente, una sarcastica
rappresentazione di un mondo in decadenza. L’oggetto accompagna il protagonista
per tutta la vicenda e inaspettatamente non svolge esclusivamente la funzione di
divertissement, di passatempo, ma anzi anche da fonte di nutrimento per il
protagonista/lumaca in una delle fasi più critiche della vicenda. Elemento dal
potente valore simbolico l’atto di ingurgitare le pagine del libro determina
quasi la trasformazione di Goreng da lumaca a Don Chisciotte stesso. Così come
quest’ultimo si scaglia contro i mulini a vento in una disperata lotta contro
forze invincibili, così Goreng, dopo aver trovato il suo Sancio Panza nella
figura di Baharat, è determinato a sconfiggere l’Amministrazione; una lotta che, seppur fisicamente avvenga tra gli stessi detenuti, è tutta giocata sul piano
simbolico.
“Si, Chef!”
Al contrario di come avviene, per
esempio, in Snowpiercer (Bong Joon-ho, 2013) nel quale il detentore del
potere, e cioè il capotreno, è ben visibile e partecipa agli sviluppi della
trama, come si accennava in precedenza, gli architetti della prigione non
vengono mai mostrati e la loro presenza è interamente rilegata nel fuoricampo
filmico. Pertanto, in questo senso, l’aspetto più interessante del film di
Gaztelu-Urrutia è senza ombra di dubbio il livello 0, cioè il piano in cui la
piattaforma viene rifornita di pietanze e preparata per la discesa. Una brigata
di cucina capitanata da un esigente chef prepara con minuziosa cura i piatti per
i detenuti. Queste sporadiche apparizioni della cucina, relegate a poche scene
disseminate nel corso della visione, mettono lo spettatore in una posizione
privilegiata rispetto ai detenuti, i quali non potranno mai sapere cosa ci sia
al livello 0. Lo spettatore è in qualche modo reso complice e ne scaturisce un
forte senso di disagio e di disgusto; un contrasto, quello tra la prigione e la
cucina, che genera un corto circuito narrativo ed evidenzia il peso del cibo e
dell’atto del consumo nell’economia del film. Decisiva è la scelta di
mascherare la volontà del potere dietro la figura di uno chef, qui
rappresentato come una sorta di spietato e psicopatico generale dell’esercito,
consapevole e compiaciuto di cosa avvenga nei piani inferiori.
Come si diceva in precedenza Il
Buco è un film che riesce a trovare la sua originalità nel campo dei film
distopici dalla forte valenza metaforica. Trovando, in primis, nel cambio di
figura retorica il suo aspetto più inquietante e in seguito nel lasciare un
vasto piano d’azione nell’immaginazione dello spettatore, messo a conoscenza di
una realtà gerarchica e dogmatica, nella quale non è concepibile l’errore e non
c’è spazio per la commedia.
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