Lazzaro Felice (2018) - Recensione


Quando si pensa al cinema italiano contemporaneo difficilmente si riesce a trovare un autore che riesca a raccontare con efficacia l'intima essenza delle nostre terre. Alice Rohrwacher però è una di quelle autrici, che riescono ad incantare, e con il suo ultimo lavoro Lazzaro Felice (id., 2018, 130') dà vita a un' opera che racconta con sentimento e vigore una piccola storia di agrodolce mistero, riuscendo intelligentemente a frugare nell'urna delle leggende popolari italiane.
La vicenda si apre in medias res con la quotidianità di un gruppo di contadini dell'Italia centrale e, in particolare, con l'idilliaca condizione di Lazzaro, un ragazzo a malapena ventenne che, per un ritardo mentale o per la sua ingenua bontà, si ritrova a essere alla mercé dei contadini. Ma sarebbe meglio dire mezzadri, dato che, pur essendo la storia ambientata negli anni '90, questi individui sono proprietà della Marchesa Alfonsina De Luna, la signora del tabacco. A seguito della scoperta da parte dello Stato di questo 'Grande Inganno' i contadini saranno costretti a muoversi verso la città. Lazzaro sarà così spettatore inconsapevole di una realtà in mutamento e allo stesso tempo attore partecipe e coinvolto dell'amicizia con il giovane Tancredi, figlio ribelle della Marchesa.




Si percepisce subito il retrogusto amaro del fatto di cronaca al quale la Rohrwacher s'ispira, nemmeno così difficile da credere per coloro che sono abituati a vivere nel paese della truffa per eccellenza. Eppure, piuttosto che limitarsi a strumento di critica, il cinema dell'autrice de Le Meraviglie (id., 2014, 111') è occasione per toccare con tenerezza e stupore i sentimenti che danno vita ai personaggi e, più in generale, i microcosmi emotivi che con delicato tratteggio accompagnano la visione.
La pellicola racconta dunque l'eroico topòs del viaggio dalla campagna alla città. Questo passaggio non è ritratto come spontaneo o naturale, come se i due paesaggi fossero confinanti, adiacenti, e partecipassero della stessa realtà. La campagna e la città restituiscono l'impressione di una realtà ovattata, chiusa, nella quale il mondo diegetico non solo non è raccontato, ma proprio non esiste, o non esiste ancora.



 Il fatto si spiega prima di tutto, sul piano narrativo, con l'ignoranza del mondo da parte dei contadini, che si ritrovano ad essere totalmente isolati; convinti che oltre a quei campi di tabacco e la strada sterrata che porta alla città non ci sia altro. Allo stesso modo la città, poiché non viene mai ritratta nella sua interezza, è ridotta a piccoli scorci emblematici. L'idea è di trovarsi in un tempo prima del tempo stesso, una realtà mitica, come quella delle grandi storie di fondazione delle mitologie classiche, nelle quali avvengono i miracoli. Il passato e il futuro, così come tutti gli altri elementi che compongono il racconto (la mezzadria, la vita della campagna, la mafia, i santi nascosti nei comodini e i loro miracoli), diventano ingredienti di un enorme ricettario di storie edificanti sulla vita e la cultura italiana. Alla luce di ciò sarebbe interessante riprendere in mano pellicole che appartengono a questo vocabolario: si pensi alla profonda sensazione di appartenenza alla terra che trasmettono Io non ho paura (Gabriele Salvatores, 2003, 108') e Respiro (Emanuele Cirialese, 2002, 95').
In tutto ciò Lazzaro è l'enigma, il chiasmo, la contraddizione. Una figura unica, estremamente difficile da comprendere, e allo stesso tempo, incarnazione della semplicità. Il suo nome e la sua vicenda raccontano di un miracolo, o meglio di una serie di miracoli. In particolare la sequenza del miracolo della musica è intrisa di stupore. Questi fatti inspiegabili sono il perno sul quale la vicenda è costruita, e ci si domanda chi sia l'autore di questi miracoli, o se siano dei fatti spontanei. Sicuramente, sul piano della narrazione, si tratta di colpi di scena decisamente efficaci.
In ultimo si vuole qui descrivere brevemente una sequenza che racchiude in sé una delicatezza inesauribile. Il campo di tabacco è ripreso dall'alto, le piante si muovono. I bambini giocano a chiamare Lazzaro e si nascondono. Lazzaro avanza, lentamente scosta le piante e sorprende due amanti, che con tenerezza e complicità ricambiano lo sguardo. Una sequenza dal sentore onirico che richiama in qualche modo lo stile di alcuni film di Federico Fellini, in particolare 8 1/2 (id., 1963, 138') e Roma (id., 1972, 128'), e trasporta lo spettatore nel sentire fanciullesco e profondamente malinconico di Lazzaro.








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